VEDERE E ASCOLTARE CON LA MENTE. ANTROPOLOGIA DELL'INDOVINO NELLA GRECIA ANTICA
Ed ecco che a loro parlò il divino Teoclimeno:
«Ah sciagurati, che rovina vi tocca? Di notte
sono avvolte le vostre teste, i volti e, sotto, le ginocchia,
il singhiozzo (oimōgé) vi brucia, sono lacrimose le guance,
di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi;
d’ombre (eidólōn) è pieno il portico, pieno anche il cortile,
che scendono all’Erebo, sotto la tenebra; il sole
del cielo s’è spento, funesta è scesa l’oscurità (achlús)»13.
Teoclimeno risponde che andrà via da sé,
senza bisogno di accompagnatori: «Ho gli occhi, gli orecchi e tutt’e due i piedi, e la mente (nóos)
nel petto (en stéthessi) è ben salda, non pazza. Da me uscirò dalla porta, perché vedo (noéō)
rovina che piomba su voi»14. A differenza di Tiresia, il cieco indovino tebano, Teoclimeno – per
sua stessa ammissione – può contare su «occhi, orecchie e ambedue i piedi». Eppure Omero
afferma che il mántis «percepisce» (noéō) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti. La
visione o, meglio, la percezione di Teoclimeno si realizza attraverso quel nóos che l’indovino
dichiara di avere ben saldo nel petto (en stéthessi). Dico più in generale «percezione» perché
Teoclimeno non solo vede i muri imbrattati di sangue e le lacrime che bagnano il volto dei proci,
ma ne ascolta anche gemiti (oimōgé) e risa prodotte con mascelle altrui, quasi fossero già
scheletri che ridono digrignando i denti. Pur avendo occhi e orecchie, Teoclimeno vede e ascolta
attraverso il nóos, proprio come Eleno, Tiresia e ogni altro indovino che si rispetti15.
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Ed ecco che a loro parlò il divino Teoclimeno:
«Ah sciagurati, che rovina vi tocca? Di notte
sono avvolte le vostre teste, i volti e, sotto, le ginocchia,
il singhiozzo (oimōgé) vi brucia, sono lacrimose le guance, di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi; d’ombre (eidólōn) è pieno il portico, pieno anche il cortile, che scendono all’Erebo, sotto la tenebra; il sole
del cielo s’è spento, funesta è scesa l’oscurità (achlús)»13.
sono avvolte le vostre teste, i volti e, sotto, le ginocchia,
il singhiozzo (oimōgé) vi brucia, sono lacrimose le guance, di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi; d’ombre (eidólōn) è pieno il portico, pieno anche il cortile, che scendono all’Erebo, sotto la tenebra; il sole
del cielo s’è spento, funesta è scesa l’oscurità (achlús)»13.
Teoclimeno risponde che andrà via da sé, senza bisogno di accompagnatori: «Ho gli occhi, gli orecchi e tutt’e due i piedi, e la mente (nóos) nel petto (en stéthessi) è ben salda, non pazza. Da me uscirò dalla porta, perché vedo (noéō) rovina che piomba su voi»14. A differenza di Tiresia, il cieco indovino tebano, Teoclimeno – per sua stessa ammissione – può contare su «occhi, orecchie e ambedue i piedi». Eppure Omero afferma che il mántis «percepisce» (noéō) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti. La visione o, meglio, la percezione di Teoclimeno si realizza attraverso quel nóos che l’indovino dichiara di avere ben saldo nel petto (en stéthessi). Dico più in generale «percezione» perché Teoclimeno non solo vede i muri imbrattati di sangue e le lacrime che bagnano il volto dei proci, ma ne ascolta anche gemiti (oimōgé) e risa prodotte con mascelle altrui, quasi fossero già scheletri che ridono digrignando i denti. Pur avendo occhi e orecchie, Teoclimeno vede e ascolta attraverso il nóos, proprio come Eleno, Tiresia e ogni altro indovino che si rispetti15.
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